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L’imminente discussione sul narcotraffico
Rodrigo Londoño Echeverri / martedì 10 dicembre 2013 / Español
 

Il quotidiano peruviano El Comercio pubblicò, il 12 febbraio 1998, alcune dichiarazioni del famoso economista nordamericano Milton Friedman, in un articolo intitolato “Droghe, una guerra ingiusta?”: “La nostra politica antidroga ha provocato migliaia di morti, e perdite favolose in Colombia, Perù e Messico(...) Tutto ciò perché non siamo in grado di far rispettare le leggi nel nostro stesso paese. Se ci riuscissimo non esisterebbe un mercato d’importazione (…) Paesi stranieri non subirebbero la perdita della loro sovranità (…) Può essere morale una politica che conduce alla corruzione generalizzata, mentre ottiene risultati razzisti, distrugge i nostri quartieri poveri, fa strage di gente debole ed arreca morte e disintegrazione in nazioni amiche?”

Il padre della Scuola di Chicago assicurava categoricamente che il governo del suo paese avrebbe dovuto legalizzare il consumo di droghe e cessare unilateralmente la guerra contro di esse. Ricordava amaramente che, in conseguenza di questa guerra, gli Stati Uniti avevano moltiplicato per otto la propria popolazione carceraria, principalmente popolazione nera e latina con risorse economiche limitatissime.

Questo tipo di posizioni, prive della minima ombra di sospetto, è stato esposto più volte da rispettabili personalità. Basti ricordare che nel 1979 Alberto Lleras Camargo, due volte presidente della Colombia, prestigioso giornalista e primo Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, dichiarava al quotidiano El Tiempo, di Bogotá, che le politiche repressive del governo nordamericano come la persecuzione costiera della polizia e dei servizi segreti, avevano innalzato il prezzo delle droghe al punto da incentivare la creazione di mafie disposte a ottenerle in qualunque parte del mondo, per portarle negli USA e fare lì il proprio gigantesco business.

Il patriarca liberale non aveva dubbi nel mettere in guardia il nostro paese sul fatto che sarebbe diventato il capro espiatorio per una responsabilità che competeva solo al governo yankee: “In futuro la guerra e le droghe infangheranno la reputazione dei nostri compatrioti”, profetizzava con somma ragione.

Il ventennio trascorso dalle dichiarazioni di Lleras Camargo, quando la Colombia raggiungeva appena la folcloristica condizione di esportatrice di cannabis, a quelle di Milton Friedman, così come i quindici anni passati da queste ultime, ci permettono di ragionare su molte cose relative all’argomento che presto sarà oggetto di discussioni al Tavolo dell’Avana.

I diversi studiosi dell’economia capitalista mondiale si trovano sostanzialmente d’accordo, nel senso che i gloriosi trent’anni di ascesa ed espansione della produzione industriale seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, e che hanno significato la crescita economica più eclatante registrata nella storia, sono arrivati alla loro conclusione nei primi anni ’70. La sopravvenuta stagnazione, prodotta dall’evidenza di un’imminente crisi di sovrapproduzione, ha obbligato i grandi capitali a frenare gli investimenti nell’economia materiale, dando luogo ad una riduzione costante della quota di profitto.

Si rese necessario cercare altri ambiti d’investimento. La crisi petrolifera di allora e la favolosa ricchezza che ha portato al mondo arabo spalancarono le porte alla speculazione finanziaria. Il credito internazionale, le borse valori e l’infinità di speculazioni conseguenti si sono incaricati di stimolare e legittimare le più diverse forme di generazione di capitale e di profitto. Il commercio delle droghe ha acquisito allora un’importanza senza precedenti come fonte di ricchezza ed investimenti.

La disputa sulla destinazione finale di questi investimenti si è conclusa con la dichiarazione di guerra contro le droghe del governo degli Stati Uniti. Si trattava del controllo dei miliardi di dollari derivanti dalla somma dei pagamenti per le dosi consumate dai suoi cittadini, enormi capitali che uscivano dal paese e finivano nelle mani di sconosciuti.

Oltre alla copertura morale che si poteva imprimere a questa crociata, l’infanzia e la gioventù che si dovevano salvare da un flagello così nefasto, essa avrebbe potuto servire ad interessi politici immediati, come il compensare la morte di 4 milioni di vietnamiti per mano delle truppe d’invasione nordamericane, giustificata con il puerile argomento che prostitute indocinesi, addestrate dai comunisti, avevano iniziato alle droghe i soldati nordamericani, equiparando ciò al danno prodotto dall’orribile mattanza ed esimendo gli Stati Uniti dagli obblighi di compensazione.

E sarebbe divenuta un poderoso strumento di controllo sociale entro le sue stesse frontiere. Le conflittuali popolazioni degli odiati negri e dei migranti potevano essere represse ed incarcerate in massa. E, soprattutto, era possibile garantire un effettivo strumento di ingerenza diretta nei paesi del Terzo Mondo e in particolare nel proprio cortile di casa, le cui lotte sociali e politiche minacciavano di far uscire quei paesi dall’orbita politicamente corretta.

Tutti gli aneddoti e le cronache su qualunque area di coltivazione di piante utilizzate per la produzione di droghe, danno conto, guarda caso, del fatto che sono stati dei generosi statunitensi i primi a promuovere e introdurre tali coltivazioni.

Poi sarebbe venuto il controllo totale sui corpi di polizia locali, e alla fine, con la stessa scusa dell’eroica e giusta lotta contro le droghe, la direzione ed il controllo delle forze militari del paese coinvolto. La Colombia è un caso assolutamente esemplare di sviluppo di questa strategia di dominazione.

Con la scomparsa dell’URSS e sfumato improvvisamente il fantasma del comunismo, pretesto per la persecuzione contro tutte le forme di malcontento politico e sociale, nello sviluppo della dottrina nordamericana di sicurezza nazionale il potere egemonico del grande capitale transnazionale, rappresentato dagli Stati Uniti e dalla Nato, si è trovato da un giorno con l’altro senza una scusa che potesse legittimare i suoi atti d’intervento e pirateria su scala internazionale. Bisognava creare un nemico in grado di giustificare l’enorme apparato bellico e le politiche d’ingerenza.

Comparvero allora nuovi fantasmi: il terrorismo, il narcotraffico, le violazioni dei diritti umani, la minaccia delle armi di distruzione di massa, gli attentati contro l’ambiente, ecc.; una lunga lista caratterizzata dall’ipocrisia e dalla manipolazione, perfettamente applicabili in primo luogo proprio al potere imperiale, il primo Stato fra tutti che ha massicciamente utilizzato armi nucleari ed armi convenzionali di ogni tipo contro nazioni e popoli interi, che ha depredato il pianeta con la sua avidità di profitti, e che ha promosso sanguinosi colpi di Stato ed appoggiato dittature sanguinarie e governi fantoccio che hanno messo in pratica i metodi della tortura, della guerra sporca e del paramilitarismo insegnati nelle sue scuole di formazione militare e di polizia.

Nel nostro caso, il narcotraffico è risultato ideale. Mentre buona parte dei gruppi e movimenti ribelli dell’America Latina hanno ceduto di fronte all’enorme peso della debacle del socialismo reale, anche in Colombia, dove buona parte del movimento insorgente ha ammainato le sue bandiere davanti ai canti di sirena della globalizzazione finanziaria e della fine della storia, altri gruppi come le FARC e l’ELN, veramente rivoluzionari e impegnati con il loro popolo, hanno persistito nei propri progetti politici e militari.

Da quel momento in poi non saremmo più stati trattati come pedine del comunismo internazionale, ma come gruppi narcotrafficanti, terroristi e via discorrendo. Non sono mancati persino i tentativi di addebitare alle FARC il commercio internazionale di uranio e altri minerali per la produzione di armi nucleari. Le cosiddette operazioni psicologiche, tanto diffuse e praticate a suo tempo dalla CIA, oggi veri strumenti di propaganda tenebrosa in mano a forze militari e di polizia comandate direttamente dal Pentagono, s’incaricano di seminare nella mente della popolazione nazionale e mondiale le rappresentazioni più infamanti delle organizzazioni rivoluzionarie.

Fra le suddette operazioni è evidente l’invenzione del nostro coinvolgimento nel narcotraffico. Un paese come la Colombia, montagnoso e con grandi estensioni di selva, verso le cui regioni più remote sono stati scacciati, in ondate successive di violenza latifondista, contadini e coloni, abbandonati per di più alla loro sorte dallo Stato, è risultato ideale per lo sviluppo di coltivazioni proibite.

Questi contadini vi hanno trovato il modo di sopravvivere ed elevare mediamente le loro miserabili condizioni di vita.

Le guerriglie, opposte da vari decenni al regime, stanziate principalmente nelle aree contadine, non avevano il diritto né la vocazione di rivoltarsi contro la popolazione per proibirle l’unica attività dalla quale derivava la loro fragile sussistenza.

La responsabilità fondamentale del problema delle droghe affonda le sue radici nell’essenza stessa dell’economia capitalista, nell’incapacità o mancanza di volontà del governo nordamericano di applicare le leggi proibizioniste, e persino nel carattere assurdo di queste ultime. Gli studiosi di queste tematiche affermano che produce più morti il consumo di alcool o di cibo spazzatura che quello di droga. E che la violenza che genera il narcotraffico è un prodotto dell’attività mafiosa ed illegale derivante dalla proibizione del consumo. E che la guerra contro le droghe genera più violenza, corruzione e decomposizione, sociale e statale, della stessa degenerazione da dipendenza.

E così, nel momento in cui all’Avana si affronta il tema delle droghe illecite, le FARC-EP condividono la volontà espressa dalle comunità contadine che subiscono la guerra che l’oligarchia colombiana, come sempre prona di fronte all’impero, ha deciso di dichiarare contro di esse. Nonostante il Presidente Juan Manuel Santos farfugli, in alcuni scenari, la necessità di applicare una politica differente nel combattere questo problema, nella pratica ha fatto propria la fedele interpretazione delle direttrici di guerra totale emanate dal governo degli Stati Uniti.

Le FARC, invece, perseguono fermamente quanto deciso nella nostra Ottava Conferenza Nazionale, incluso già nel 1993 all’interno della loro piattaforma politica:

“10. Soluzione del fenomeno di produzione, commercializzazione e consumo di narcotici e allucinogeni, inteso innanzitutto come un grave problema sociale che non può essere risolto attraverso la via militare, che richiede accordi con la partecipazione della comunità nazionale e internazionale, nonché l’impegno delle grandi potenze quali principale fonte della domanda mondiale di stupefacenti”.

Il governo ed il popolo della Colombia, così come la comunità internazionale, possono essere certi che la maniera in cui al Tavolo affronteremo il problema delle droghe illecite, in tutto ciò che ha relazione con i programmi di sostituzione delle coltivazioni illecite, piani di sviluppo, esecuzione e valutazione con la partecipazione della comunità, così come il recupero ambientale delle aree coinvolte, compresi i programmi di prevenzione del consumo e salute pubblica che contemplino la sua legalizzazione, si svilupperà con la nostra irremovibile e decisa volontà di contribuire nel modo migliore a porre fine alla sempiterna ingiustizia sofferta dalle comunità contadine del paese, una delle ragioni storiche della nostra lotta ininterrotta di cinquant’anni.

Riteniamo che quando le aspirazioni fondamentali delle comunità contadine saranno soddisfatte, come risultato degli accordi al Tavolo dell’Avana e nei diversi tavoli di interlocuzione che si sviluppano nel paese, il problema delle coltivazioni illecite sarà scomparso per sempre dalla Colombia. La nostra soddisfazione per una Colombia senza coca sarà enorme. E ancor di più se al contempo porterà ad una Colombia senza povertà e miseria rurali, che possa esercitare i suoi diritti politici senza alcun tipo di minaccia e violenza.

In questo modo saranno oggettivamente scomparsi dal paese, come conseguenza immediata e diretta, la produzione di droghe e la sua commercializzazione, che tuttavia non spariranno dall’ambito dell’economia capitalista, da cui emergono. Altri scenari e lotte dovranno occuparsi dello sradicamento definitivo del problema nel mondo. Per quanto concerne ciò che è alla nostra portata, ed alla portata del nostro popolo, bisognerà collaborare attivamente. L’uso politico e strategico della guerra contro le droghe da parte dell’impero degli Stati Uniti cercherà sicuramente di spostare il conflitto verso paesi vicini, il cui regime politico democratico sia interessato a combattere. Questa considerazione, questo avvertimento finale, dovrebbe far parte dell’accordo pacifico a cui si giunga in Colombia.

La soluzione politica del grave conflitto che soffre il paese da oltre di cinque decenni passa per la riconquista della nostra sovranità nazionale, della nostra libertà di analisi e decisione come nazione indipendente. Gli interessi geopolitici del governo nordamericano, promotori della perfida intenzione d’infangare la nostra condizione di rivoluzionari con stigmatizzazioni criminali, così gradite alle classi dominanti colombiane e ai suoi apparati repressivi, dovranno essere abbandonati e rifiutati poiché infamanti. Possiamo discutere e dibattere quanto si vuole della nostra condizione ideologica, politica, organizzativa e militare, ma non ci si può aspettare in alcun modo una nostra disponibilità ad accettare le basse insinuazioni e le condanne che trama l’establishment.

Le FARC-EP non saranno il capro espiatorio dei crimini contro l’umanità commessi dall’impero e dall’oligarchia. E’ ora che questi comincino a rispondere dei propri atti. Lo esige la storia.